Il 20 settembre 2001, George W. Bush comunicò che gli Stati Uniti erano stati attaccati dai nemici dei “popoli civilizzati, di chi crede nel progresso, nel pluralismo e nella libertà”. Era necessario rispondere all’attacco con “una guerra al Terrore”. Il mondo, incollato al televisore, lo vide e lo ascoltò. Tre anni dopo, il 29 ottobre 2004, Osama Bin Laden gli rispose con messaggio via radio e, chiamando Allah a testimone, motivò l’attacco alle Torri Gemelle come una risposta alla guerra precedentemente iniziata dagli stessi Stati Uniti. La sua era “una guerra all’Ingiustizia”, determinata dall’iniquità e dalla “tirannia della coalizione israelo-americana contro il popolo in Palestina e in Libano”.
Twitter, Facebook, YouTube. Trascorsero altri due anni e a maggio 2006 George W. Bush ricevette una lettera da Teheran. Il Presidente dell’Iran Mahmoud Ahmadinejad discuteva di valori religiosi, storia e rapporti internazionali; pagine cariche di domande, risposte e riferimenti alle “guerre imposte al mondo”. Nello stesso anno iniziò un po’ in sordina la vita di Twitter, un canale comunicativo poi abbracciato dagli studenti iraniani come rete di notizie per la loro protesta contro le elezioni del 2009. Così i nuovi media YouTube, Facebook e Twitter sono diventati anche la grancassa della primavera e dell’estate arabe.
Non si tratta più della Guerra al Terrore. Mentre la data dell’11 settembre si è tristemente guadagnata un posto nei libri di storia, ora tutti i canali comunicativi — dalla televisione alla radio, dalla carta stampata ai nuovi media — sembrano unirsi per imporre alla nostra attenzione la consapevolezza di una nuova guerra. Non si tratta più di Guerra al Terrore o all’Ingiustizia, o forse sì, forse anche: è la guerra alla crisi economica mondiale, la guerra del mondo globalmente indebitato, la sfida contro la sua recessione. I Media, vecchi e nuovi, stanno parlando alla coscienza del mondo.
di Roberta Facchinetti