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Addio all’ispano peruviano Mario Vargas Llosa

L’editoriale di Felice Gambin dedicato al premio Nobel per la letteratura che lottava da anni contro una malattia rara e incurabile

di Georges Chamoun
16 Aprile 2025
in Attualità

È morto domenica 13 aprile a Lima Mario Vargas Llosa, un gigante della letteratura mondiale e una delle voci fondamentali del Novecento. Premio Cervantes nel 1994 e premio Nobel per la letteratura nel 2010, scrittore, giornalista, critico, intellettuale e osservatore attento della realtà del continente sudamericano, lascia un’eredità immensa di romanzi, saggi e battaglie civili.  Aveva 89 anni. Da anni soffriva di una malattia rara e incurabile rivelata solo nelle ultime ore dai suoi dai familiari. Ha dedicato gli ultimi mesi della sua vita a visitare i luoghi e gli scenari della capitale peruviana dove aveva ambientato i suoi romanzi più famosi, quasi a volere dialogare ancora una volta con i personaggi che lo avevano fatto conoscere a livello mondiale.

Con Gabriel García Márquez, Carlos Fuentes e Julio Cortázar ha contribuito a rendere grande nel mondo la letteratura in lingua spagnola attraverso quel “boom latinoamericano” che fu uno dei maggiori fenomeni letterari del ventesimo secolo. Uno degli aspetti più noti della sua vita fu proprio il rapporto con il collega García Márquez, a cui aveva dedicato la tesi di dottorato. In gioventù, i due erano stati molto amici e avevano anche iniziato un sodalizio intellettuale, salvo poi allontanarsi per motivi politici agli inizi degli anni Settanta.

E come García Márquez e molti altri della loro generazione, anche l’autore peruviano aveva partecipato alla vita politica dell’America del sud, ai drammi delle sue dittature e ai sogni, poi infranti, della rivoluzione cubana. Dapprima marxista e sostenitore di Fidel Castro, aveva poi abbracciato le idee liberali di destra e fu perfino candidato alle elezioni presidenziali del Perù nel 1990 per il partito conservatore. Per molti anni, dopo la sconfitta elettorale, visse a Madrid (la Spagna gli aveva concesso la cittadinanza nel 1993) continuando a realizzare romanzi e saggi e curando, per più di trent’anni, una rubrica quindicinale di temi di attualità sul quotidiano spagnolo El País, da dove denunciava le inadeguatezze della classe politica mondiale e i problemi sociali con voce lucida e talvolta controcorrente.

Un’attenzione, quella ai cambiamenti della società, che rivendicava come elemento portante dei suoi romanzi, una produzione vastissima di titoli a partire da «La città e i cani», il suo libro d’esordio ambientato nel collegio militare di Lima, che lui stesso aveva frequentato, e bruciato in piazza perché ritenuto un testo comunista. E ancora «La zia Julia e lo scribacchino», «La casa verde», «Elogio della matrigna» e «Conversazioni nella “Catedral”», il cui incipit è tuttora considerato uno dei migliori mai scritti. Fino ad arrivare all’ultima opera «Le dedico il mio silenzio», pubblicata in Italia nel 2024, che esplora il tema centrale della sua vita, ossia la rappresentazione del mondo attraverso l’arte. Suoi anche numerosi testi teatrali, diversi dei quali sono stati adattati per la televisione. Il premio Nobel Vargas Llosa, come pochi altri autori hanno saputo fare, ci ricorda come anche la letteratura, attraverso lo strumento dell’invenzione, riesca a spiegare i tempi in cui viviamo.

Il mio incontro con la sua scrittura non è avvenuto attraverso un romanzo ma attraverso la sua tesi di dottorato: «García Márquez: Historia de un deicidio», discussa a Madrid e pubblicata a Barcellona nel 1971. Uno studio geniale dell’opera «Cent’anni di solitudine» dell’allora amico colombiano e una straordinaria analisi degli espedienti narrativi che aveva impiegato.

Ricordo anche di essermi imbattuto più volte in lui a Madrid in una nota cioccolateria, intenti entrambi a godere del piacere di immergere i «churros» nella cioccolata calda. Abbiamo condiviso, in maniera silenziosa, la stessa euforia. Non ho mai avuto il coraggio di ringraziare Mario Vargas Llosa, tale mi pareva il rispetto che dovevo a un gigante della letteratura mondiale. Avrei avuto pure motivi personali per distrarlo dalla cioccolata calda, avendo vissuto anch’io nella sua città natale, Arequipa, in Perù, e a Cochabamba, in Bolivia, dove si era trasferito da bambino con la madre e i nonni materni. Con la sua morte si chiude un capitolo importante della storia culturale contemporanea.

 

Felice Gambin

Professore ordinario di letteratura spagnola all’Università di Verona e delegato del rettore all’internazionalizzazione

 

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