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Dalla Sars al Covid-19, cosa insegnano le epidemie del recente passato

L’intervista a Donato Zipeto, docente di Biologia molecolare in ateneo

di Elisa Innocenti
30 Marzo 2020
in Attualità
Coronavirus Asian flu ncov over Earth background and its blurry hologram. Concept of cure search and global world. 3d rendering toned image. Elements of this image furnished by NASA

Coronavirus Asian flu ncov over Earth background and its blurry hologram. Concept of cure search and global world. 3d rendering toned image. Elements of this image furnished by NASA

Donato Zipeto, professore associato di Biologia molecolare nel dipartimento di Neuroscienze, biomedicina e movimento, studia i virus dal punto di vista molecolare da 30 anni. Prima di arrivare a Verona, ha lavorato al Center for AIDS Research di Stanford, California, e all’Istituto Pasteur di Parigi. Abbiamo fatto con lui il punto sulle differenze tra il Covid-19 e le precedenti epidemie da coronavirus.

Cosa è un virus? 

Spesso si fa una grande confusione fra virus, batteri e microorganismi vari: tutti nello stesso “calderone”, usando a volte i diversi termini quasi fossero sinonimi. I virus sono invece qualcosa di molto diverso e particolare. Non possono nemmeno essere considerati esseri viventi ed è difficile definirli in poche parole. Sinteticamente, un virus è un parassita molecolare. E, come parassita, sfrutta i meccanismi molecolari della cellula che infetta per replicarsi. Per semplificare, potremmo immaginare proteine e acidi nucleici virali come una sorta di “commando” che agisce rapidamente e prende il controllo dei centri nevralgici della cellula, una sorta di “colpo di stato” che la costringe a smettere di svolgere le sue funzioni, per mettersi a produrre nuove particelle virali. Peter Medawar, un biologo britannico e premio Nobel per la medicina nel 1960, ha definito i virus “cattive notizie avvolte da proteine”.

La natura ci aveva già avvisati due volte: con la SARS nel 2003 e con la MERS nel 2012: quali le differenze?

Non è la prima volta che, in anni recenti, assistiamo alla comparsa di gravi patologie respiratorie causate da nuovi coronavirus. Prima della SARS, in pochi studiavano questa famiglia virale, in quanto, fino ad allora, responsabili di banali raffreddori.

A fine 2002, a partire dalla provincia del Guandong, in Cina, viene rilevata una nuova patologia respiratoria, la SARS (acronimo di Sindrome respiratoria acuta e severa) causata da un nuovo coronavirus, prima di allora sconosciuto. Questo nuovo virus colpì, oltre alla Cina, altri paesi del mondo, fra i quali diversi Paesi del Sud Est asiatico, il Canada, toccando anche parecchi Paesi europei e si ebbero 4 casi riportati anche in Italia. Il timore che la SARS potesse trasformarsi in pandemia ci accompagnò per la prima metà del 2003. Alla fine, si contarono 8098 casi, 774 decessi, e un tasso di mortalità del 9,6%.

Nel 2012, nella penisola arabica, comparve un nuovo coronavirus, denominato MERS-CoV (MERS è l’acronimo di Sindrome respiratoria del Medio Oriente). Casi furono riportati in Arabia Saudita, Emirati Arabi, Qatar, Oman, Kuwait e rari casi di importazione nel Regno Unito, Francia, Germania, Grecia e anche Italia. Il coronavirus della MERS si è rivelato molto più pericoloso: 2494 casi riportati, 858 decessi, mortalità del 34,4%.

Nel caso della SARS, oltre al rapido intervento delle autorità sanitarie, che riuscirono in pochi mesi a spegnere tutti i diversi focolai nel mondo, è probabile ci si trovasse di fronte ad un virus sì pericoloso, ma forse meno contagioso. Discorso simile per il coronavirus della MERS: più letale, ma meno in grado di diffondersi, forse anche per la ridotta densità di popolazione nella penisola arabica. Ci è andata bene per ben due volte.

Purtroppo, nonostante i due allarmi precedenti, la comunità internazionale ha continuato ad interessarsi marginalmente di questi virus, investendo poche risorse nella ricerca di antivirali e, ancora meno nella messa a punto di vaccini. Nel frattempo, si sono diffusi movimenti no-vax, complottismo, scetticismo, fake news e, in generale, avversione nei confronti della scienza. Non abbiamo raccolto l’allarme che la natura, per ben due volte, ci aveva inviato. E così nel 2019, un nuovo coronavirus fa un ennesimo salto di specie, forse meno letale, ma molto più contagioso, e nel giro di poche settimane è diventato pandemico, un disastro a livello mondiale.

Cosa è una zoonosi e cosa sono i salti di specie? 

È un evento naturale, ben conosciuto ai virologi e agli epidemiologi. In sostanza si parla di zoonosi quando un agente infettivo che circola in una data specie animale, diventa capace di infettare un’altra specie. Gli anglosassoni usano il termine “spillover”, traducibile come “sversamento, tracimazione”. Non si tratta di un evento nuovo o inatteso. Diverse malattie infettive di origine virale nascono come zoonosi. Lo sono probabilmente state il morbillo, il vaiolo, trasmessi all’uomo in epoche preistoriche quando da popolazioni di cacciatori e raccoglitori, diventammo agricoltori ed allevatori, come conseguenza della stretta vicinanza con gli animali allevati. Sono zoonosi più recenti l’AIDS, causato dal virus HIV, le influenze pandemiche, come la spagnola del 1918 e le successive, Ebola, e zoonosi sono anche le infezioni causate da virus con i quali ci si è confrontati negli ultimi anni anche da noi in Italia e nella nostra regione, quali il West Nile, Chikungunya, Zika. E sono zoonosi i “salti di specie” dei coronavirus sopra menzionati.

Affinché, però, un evento accidentale, casuale, si trasformi in una epidemia o, ancor peggio, in una pandemia, sono necessari due passaggi importanti. Il primo, l’infezione accidentale di una persona con un virus animale. Nella maggior parte dei casi, l’infezione nell’uomo può rappresentare un vicolo cieco, e tutto può fermarsi li. Possiamo prendere come esempio la rabbia, o le infezioni da hantavirus,da henipavirus o l’influenza aviaria. Se invece il virus si adatta alla nuova specie e diventa in grado di trasmettersi da persona a persona, ecco che si compie il secondo passaggio, quello più pericoloso. I motivi sono tanti e dipendono da molteplici fattori, fra i quali caratteristiche virali, come i recettori, la modalità di infezione, e dell’ospite, dettagli troppo lunghi e complessi da affrontare in questa sede.

Si dice che questo virus sia stato trasmesso all’uomo dai pipistrelli. Quale è il ruolo dei pipistrelli nelle zoonosi?

Purtroppo, i pipistrelli rivestono un ruolo molto importante nell’insorgenza di alcune zoonosi. La rabbia, ma anche Ebola, Nipah ed Hendra, responsabili di gravissime infezioni respiratorie nel sud-est asiatico e in Australia, sono stati trasmessi all’uomo dai pipistrelli, a volte anche attraverso ospiti intermedi che fanno da amplificatori. Analogamente, i pipistrelli sembrano essere il serbatoio naturale dei coronavirus prima ricordati, quindi SARS-CoV, MERS-CoV e il pandemico SARS-CoV-2 di queste settimane.

Ma i pipistrelli non hanno una particolare predilezione ad accogliere virus pericolosi rispetto ad altre specie. Semplicemente, sono tanti. Le colonie di pipistrelli contano diverse migliaia di individui. E inoltre, esistono tantissime diverse specie di pipistrelli: i chirotteri sono secondi solo ai roditori, e rappresentano quasi un quarto di tutte le specie di mammiferi conosciute. Una grande variabilità genetica, una grande mobilità, una grande numerosità, e quindi probabilmente tanti diversi virus che circolano in questi animali, la maggior parte dei quali probabilmente a noi totalmente sconosciuti. E ricordiamoci che non sono questi virus a venire a cercarci. Siamo noi che ce li andiamo a cercare quando distruggiamo l’ambiente nel quale questi animali vivono, quando costruiamo allevamenti intensivi in prossimità delle aree naturali abitate da pipistrelli e altri animali selvatici, quando li catturiamo per venderli vivi in mercati con precarie condizioni igieniche, e così via.

Può darci qualche ulteriore informazione sul SARS-CoV-2, e spiegare perché questo virus è diventato pandemico?

Si conoscono alcuni coronavirus che infettano la nostra specie, il più delle volte causano dei semplici raffreddori. Ne conosciamo almeno 4 diversi, che probabilmente sono passati all’uomo in epoche storiche, dal 1200 al 1900, secondo recenti analisi molecolari. Evidentemente alcuni coronavirus riescono a trasmettersi con una certa facilità da specie animali (pipistrelli, ma forse anche roditori) all’uomo, e non sappiamo se in passato abbiano causato patologie gravi e fatali, perché non disponiamo di dati scientifici a riguardo, e perché la popolazione umana in passato era molto meno numerosa. Il decesso di individui anziani o deboli a causa di malattie respiratorie, probabilmente passava inosservata. Nel tempo poi questi virus, circolando nella nostra specie, si sono adattati, diventando molto meno aggressivi e pericolosi ma più contagiosi.

Probabilmente è quello che potrebbe succedere anche a questo nuovo coronavirus, nel tempo. Se ci pensiamo bene, un virus non ha alcun interesse a uccidere l’ospite, o a causare sintomi così gravi da determinarne il ricovero e l’isolamento in terapia intensiva: non riuscirebbe più a trasmettersi agevolmente. Si trasmetterebbero, invece, più facilmente quelle varianti virali meno aggressive ma più contagiose e, nel giro di alcune generazioni, finirebbero per trasformarsi in virus meno letali e pericolosi. I tempi necessari per questo tipo di adattamento sono però molto lunghi, spalmandosi probabilmente su diverse generazioni. In un mondo abitato da più di 7 miliardi di persone che viaggiano, si muovono e si spostano rapidamente da un luogo all’altro, non ce lo possiamo permettere.

Il SARS-CoV-2 sembra essere un po’ meno letale dei due precedenti, ma purtroppo appare invece altamente contagioso e, per la legge dei grandi numeri, più persone infetta, più ne ucciderà, in mancanza di cure e vaccini per contrastarlo. Ecco perché l’unica arma che abbiamo a disposizione al momento per rallentarne la diffusione è l’isolamento e la drastica riduzione dei contatti interpersonali. E purtroppo pagheremo comunque un costo molto elevato, sia in termini di vite umane, sia per le conseguenze che questa situazione avrà sull’economia e sul lavoro. Probabilmente ci sono stati anche degli errori di comunicazione, di sottovalutazione, ma di fronte a qualcosa di nuovo e inaspettato, tutti sono poi bravi a dire, con il senno di poi, cosa si sarebbe dovuto o non dovuto fare.

Come ricercatore che da anni studia i virus, e come da anni dico ai miei studenti nei corsi su virus emergenti, per evitare questi disastri bisogna prevenire. Bisogna studiare, capire, stare sempre un passo avanti al virus. Nel 2009 comparve una nuova variante virale, l’influenza suina. Fortunatamente eravamo sufficientemente preparati, siamo stati in grado sia pur con notevoli difficoltà, di produrre un adeguato vaccino e il virus stesso si rivelò fortunatamente meno pericoloso di quanto non ci si potesse inizialmente aspettare, e la situazione non degenerò.

Purtroppo, nonostante i due avvisi precedenti (SARS e MERS), nessuno si è mai messo per tempo a studiare seriamente questi coronavirus. Sono stati sempre snobbati, poco considerati, in fondo si trattava di virus che fino a qualche decennio fa erano conosciuti poco e male come causa di banali raffreddori.

Come mai i pipistrelli sembrano essere in grado di controllarli meglio? Cosa hanno di particolare?

Sarebbe da chiedersi cosa ha di diverso il loro sistema immunitario, e cosa il loro studio potrebbe insegnarci per capire meglio come contrastare le infezioni da coronavirus. Ma ce lo vedete un ricercatore che richiede un finanziamento per studiare il sistema immunitario dei pipistrelli? Fino a qualche mese fa non sarebbe assolutamente stato preso in considerazione, in relazione ad altri problemi considerati più gravi e importanti. Eppure, la scienza, la conoscenza è così: tutto va studiato, tutto va capito, tutto va conosciuto, non solo quello che al momento ci sembra economicamente più importante o con un ritorno immediato. La ricerca di base, la conoscenza per la conoscenza è fondamentale, senza necessariamente pensare alle immediate applicazioni. Perché poi, quando arrivano i disastri, è solo questa conoscenza pregressa che può aiutarci. Ma in pochi sembrano averlo capito. Bisogna quindi avere più fiducia nella scienza, nei ricercatori, supportarli adeguatamente e metterli nelle condizioni di fare il loro lavoro, che è quello di conoscere e capire. E non alimentare pseudoscienza, teorie complottistiche, movimenti no-vax o limiti posti dai movimenti animalisti che rendono molto complessa e lunga la sperimentazione animale, ostacolando quindi la possibilità di individuare nuovi farmaci e nuovi vaccini in tempi rapidi.

E a proposito di sperimentazione e ricerca, quali sono le priorità?

Al momento, ha priorità assoluta la situazione sanitaria emergenziale. Bisogna concentrare gli sforzi su dispositivi di protezione, di assistenza ai pazienti infettati e in condizioni gravi, e testare l’efficacia, anche se parziale, di farmaci già approvati e disponibili. Nell’immediato, bisogna continuare con lo sforzo di messa a punto di sistemi di rilevazione del virus sempre più rapidi, ma al contempo sempre più precisi per ridurre al massimo i risultati falsi positivi e soprattutto falsi negativi, a costi accessibili per aumentare il più possibile la platea di soggetti che possono essere testati.

Sul fronte della ricerca, bisogna capire se e per quanto tempo l’infezione conferisce immunità, informazione fondamentale per lo step successivo, la messa a punto di un vaccino. Vaccino che, nella più ottimistica delle previsioni, non potrà essere comunque disponibile per la somministrazione alla popolazione generale prima di diversi mesi.

Sul fronte farmaci, oltre a testare quelli già disponibili, bisogna lavorare all’individuazione di nuove molecole e nuovi composti con attività antivirale specifica contro questo coronavirus. Questo aspetto è molto delicato e richiede tempi molto lunghi anche perché, come dicevo all’inizio di questa intervista, il virus è un parassita molecolare che sfrutta a suo vantaggio le funzioni cellulari ed è molto difficile individuare molecole che siano assolutamente selettive nell’inibire il virus, senza essere tossiche per la cellula e quindi per il paziente. Difficile, ma non impossibile: la disponibilità di tanti diversi farmaci antivirali contro il virus HIV, ottenuti e migliorati in seguito a lunghi anni di studi e ricerche, ce lo dimostra.

Da ultimo, la messa a punto di sistemi per la rilevazione di anticorpi contro il CoV-2 altamente specifici, che ci permettano di individuare quei soggetti infettati magari anche asintomaticamente e guariti, che hanno sviluppato immunità all’infezione, e che quindi quanto prima potrebbero tornare al lavoro, sia in assistenza, sia per far lentamente ripartire tutte quelle attività economiche e produttive al momento bloccate. Inoltre, la conoscenza della reale diffusione del virus riveste una importanza molto rilevante per poter implementare decisioni e interventi più adeguati e precisi.

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