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Le nuove parole dell’italiano. Pubblicato il Libro dell’Anno Treccani 2024

L'intervista ad Arnaldo Soldani, docente di Storia della lingua italiana in ateneo

di Elisa Innocenti
20 Gennaio 2025
in Attualità

Le lingue cambiano, nuovi termini diventano di uso comune, altri spariscono dalle nostre conversazioni. I dizionari hanno come scopo proprio quello di registrare le parole utilizzate dai parlanti e ogni nuova edizione comprende un gran numero di neologismi, come testimonia il Libro dell’Anno Treccani 2024, appena pubblicato. 

Ne abbiamo parlato con Arnaldo Soldani, docente di Linguistica italiana nel dipartimento di Culture e civiltà Univr.

Dissing, amichettismo, ma anche reminiscenze latine come ius scholae, sono tanti i neologismi inseriti nel Libro dell’Anno Treccani 2024. Quali caratteristiche devono rispettare le parole nuove per entrare di diritto in un vocabolario?

Ogni anno i diversi vocabolari o repertori lessicali pubblicizzano le loro nuove edizioni esibendo il numero crescente di neologismi repertoriati, in una specie di gara a chi ne ha acquisiti di più, e tendono sempre a mostrare come esempi le parole che, per una ragione o per l’altra, suscitano maggiore scalpore: perché sono legate a qualche personaggio pubblico o a qualche polemica politica o a fatti di cronaca o al gossip del mondo dello spettacolo. In questi casi, le redazioni dei dizionari sono attente alle ricadute lessicali del dibattito pubblico o al rumore di fondo prodotto dai mezzi di comunicazione, e lo sfruttano a fini promozionali. Ma il loro lavoro sull’insieme dei neologismi prodotti dalla lingua va ben al di là di queste punte più evidenti e di norma cerca di registrare le parole nuove che hanno dimostrato una certa diffusione negli usi sociali e una certa tenuta nel tempo: diffusione e durata che sono appunto le due caratteristiche principali per considerare acquisita una parola nella lingua, almeno nel medio periodo.

Alcune parole entrano, altre escono. Dopo un largo successo estemporaneo, ad esempio, “petaloso” è caduto in disuso. Perché alcuni neologismi divengono parte della lingua italiana e rimangono, mentre altri spariscono?

Dobbiamo pensare che la lingua non è un monolite sempre uguale a sé stesso. La sua variazione nel tempo è una delle caratteristiche che la rendono viva: solo le lingue morte non cambiano mai, perché non sono più usate da una comunità di parlanti nativi. I mutamenti nel tempo interessano tutti i livelli della lingua, ma in quelli strutturali (fonologia, morfologia, sintassi) si manifestano molto lentamente, su distanze secolari, perché questi settori sono quelli che determinano la stabilità strutturale del sistema, la sua permanenza nel tempo e nello spazio. Altro è il discorso per il lessico, che è una sorta di interfaccia della lingua con la realtà: è – possiamo dire – la proiezione sul piano linguistico dell’universo culturale dentro cui vive la comunità dei parlanti.

Esistono però parole presenti da sempre, che non cadono mai in disuso. Perché?

Certo, anche nel lessico c’è un nucleo di parole molto strabili, che sono presenti da sempre nella lingua perché designano alcuni elementi ineliminabili dell’esistenza umana: pensiamo a testa, mano, cielo, sole, casa, ecc.; parole che sono attestate fin dai primi documenti della lingua italiana e che presumibilmente continueranno ad esserlo per tutto il resto della sua storia. Ma il lessico deve designare anche le realtà nuove, e magari effimere, che si affacciano all’orizzonte della società per un tempo più o meno lungo: pensiamo alle novità della tecnologia, alle nuove formazioni sociali, ai nuovi concetti elaborati nei campi più diversi della vita sociale, economica, scientifica. Insomma: c’è un continuo bisogno di parole nuove, che servono alla società per dire le cose nuove che deve dire. Se poi un determinato oggetto o concetto durerà a lungo, durerà altrettanto a lungo la parola che lo designa; se invece avrà vita breve, altrettanto breve sarà la vita della parola, che uscirà dall’uso effettivo e sarà presto dimenticata (e uscirà anche dai vocabolari, a meno che non si tratti di vocabolari storici che mirano a registrare l’intero repertorio lessicale della lingua in ogni fase della sua storia plurisecolare).

Quali sono gli argomenti che danno vita a un maggior numero di neologismi in questo periodo storico?

La risposta a questa domanda dipende dal punto di vista che assumiamo. In un mondo caratterizzato da una forte innovazione scientifica e tecnologica, non c’è dubbio che una fonte inesauribile di parole nuove siano i linguaggi specialistici relativi alle diverse branche del sapere e della tecnica. Quello che colpisce è casomai la velocità con cui oggi termini ad alto tasso di specialismo vengono assunti nella lingua comune e nella comunicazione quotidiana, ad ogni livello della società: pensiamo all’impatto enorme delle parole dell’informatica o delle telecomunicazioni. È la dimostrazione di quella che un tempo si sarebbe chiamata un’egemonia culturale. Un’altra fonte di neologismi, soprattutto di matrice anglosassone, è rappresentata dalla finanza e dall’economia, specie nel dibattito pubblico e specie in certi momenti della storia del Paese: qualche anno fa, ad esempio, tutti parlavano dello spread. Poi, certo, ci sono le parole originate dal cicaleccio mediatico, i cosiddetti modismi, quelli che attirano l’attenzione di tutti, ma che di solito hanno vita molto breve: chi userebbe più, oggi, una parola degli anni Ottanta come paninaro?

Che ruolo svolgono i social media in questo processo di evoluzione linguistica, che è comunque sempre esistito?

I social media costituiscono oggi la principale cassa di risonanza dei neologismi, soprattutto di quelli legati a mode o occasioni passeggere. Non sono tanto l’origine delle parole nuove, ma il loro più immediato strumento di rilancio e di diffusione. In altre fasi della vita sociale, questa funzione è stata svolta da altri media: i giornali, la radio, la televisione. Non che oggi questi non continuino ad avere un ruolo, si intende. Ma certo non hanno l’immediatezza dei social, che consentono un’appropriazione immediata e un ruolo attivo da parte del singolo utente, senza mediazioni. Del resto, la fortuna di ogni neologismo, in tutta la storia della lingua, è sempre stata determinata dall’uso sociale; e i social media non hanno fatto altro che portare su un altro piano e amplificare i canali di diffusione sociale delle parole.

Elisa Innocenti

@AP – Adobe stock

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