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Erri de Luca e il peso della farfalla

Erri De Luca, a Verona nell’ambito del progetto FreeEntry, svela il valore dei libri e della scrittura

di univr
15 Febbraio 2010
in Attualità
Erri De Luca sul palco del Filippini

Erri De Luca sul palco del Filippini

Il libro, materiale molto resistente.  Erri de Luca nel presentare il nuovo romanzo “Il peso della farfalla” (Feltrinelli 2009) ha parlato del potere dei libri, delle proprie esperienze di vita e di formazione nonché della visione artistica e culturale della scrittura e della lettura. 

 

De Luca a Freeentry. L’incontro tra lo scrittore napoletano e il pubblico veronese ha dato il via alla seconda edizione di “Free-entry” ingresso libero alle idee, manifestazione culturale organizzata dall’assessorato alle politiche giovanili del Comune di Verona, in collaborazione con Fondazione Aida. Oltre duecento i lettori e le lettrici assiepati nella sala del teatro Filippini.

Chiedere per sapere. Incalzato dalle domande di Giovanni Cerutti, neolaureato dell'ateneo veronese, Erri De Luca subito distingue tra un chiedere per sapere – il latino quaerere – e un chiedere per ottenere – il latino petere. “Oggi il gesto della gioventù è chiedere per sapere – afferma De Luca – quello della mia generazione era invece un chiedere per ottenere. Ho avuto la fortuna di crescere, nella mia infanzia, in una stanza piena di libri, in un appartamento a Napoli, nei vicoli del dopoguerra. Era la stanza per i libri, di mio padre. Sono cresciuto con questo magnifico materiale isolante intorno. In età da lettura ho semplicemente “staccato” i libri dalle pareti, e ho avuto accesso a questa letteratura adulta. Capisci come sono fatti i grandi, che sembrano non avere difetti; attraverso quei libri capisci i crolli, le imperfezioni, i quadri, i disastri degli adulti: visibili, visitabili, e anche sabotabili.”

Una parete di conoscenza. Per il giovanissimo De Luca conoscere significava quindi sapere come sono fatti gli adulti da dentro: “me ne stavo semplicemente in silenzio, zitto contro di loro” dice lo scrittore. “I libri hanno un potere isolante, ma anche delle virtù – continua de Luca – sono l’unica cosa che si è salvata nel nostro appartamento nel dopoguerra. Solo i libri hanno resistito a tutti gli incendi. Era un materiale molto “resistente” quello dei libri. E in questo 1900 il libro è servito anche a resistere meglio. Nel 1941-42 nel ghetto di Wilno gli ebrei avevano recuperato man mano i libri e creato una biblioteca pubblica: più andava avanti la distruzione, più aumentavano i libri. Meno lettori, e più libri. Libri che avevano il potere di fornire delle calorie necessarie, un potere di distrazione da quella realtà.”

Libri dal carcere. Lo stesso potere di evasione che i libri hanno portato all’interno delle carceri: “fino agli anni ’60 si entrava in prigione in massa – racconta lo scrittore – dove ognuno sta isolato. Senza una possibile solidarietà che non sia quella della condizione oppressa. Quando siamo entrati in carcere eravamo contagiosi, attraverso la nostra presenza iniziarono delle rivolte carcerarie. Rivolte per superare quel muro di isolamento. Non c’era nessun libro dentro la prigione. Il fatto che li portassimo e che circolassero liberamente significò per i carcerati un nuovo tempo di conoscenza di sé, e di distacco da sé.” I libri hanno questa forza di distacco, un potere di evasione in stato di oppressione: “durante la veglia è come continuare a stare in un altro posto – continua lo scrittore – non è come oggi: la responsabilità dello scrittore, del libro, è solo quella di tenere compagnia al lettore. Oltre a questo cosa posso fare? – si po’ domandare uno scrittore contemporaneo – dovrebbe essere responsabile del fatto che il diritto di parola è un diritto di tutti, ovunque, anche degli analfabeti.” Il libro è “evasione, consistenza, resistenza, insomma caloria”.

La scrittura: precisione e peso delle parole. “Ho fatto per una ventina d’anni l’operaio quello che faccio con la scrittura non c’entra niente col verbo “lavorare”. Per me la scrittura è stata sempre il contrario. Possedeva questa volontà di contraddizione della mia giornata lavorativa. Un puntiglio di opposizione. Mi giustificava. Era il mio tempo opposto, contrapposto a quello del lavoro. Un libro deve essere questo: deve portare il lettore, non deve essere il lettore che si porta il libro, ma l’opposto. Quel libro doveva avere tutta la forza di sollevarmi tutto quanto anche facendomi magari sbagliare la fermata dell’autobus. Se invece aggiungeva peso alla mia giornata, quel libro mi cadeva di mano. Il libro deve portarsi tutto il peso del lettore.”

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