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I diari del sequenziamento genetico

Intervista a Massimo Delledonne, genetista dell’ateneo scaligero, di ritorno da una spedizione nel deserto del Gobi

di Elisa Innocenti
2 Dicembre 2022
in Attualità, Video

Parlare con Massimo Delledonne, docente di Genetica nel dipartimento di Biotecnologie dell’università di Verona, è un po’ come chiacchierare con una sorta di Indiana Jones, che invece dell’Arca perduta è alla ricerca del Dna delle più disparate specie animali, con l’obiettivo di salvaguardare la biodiversità del nostro pianeta. Il paragone con il celebre archeologo cinematografico riguarda, però, solo la parte più avventurosa dei racconti, con le spedizioni nei luoghi più disparati e inospitali, dalle foreste tropicali, al Deserto del Gobi, perché, sotto tutti gli aspetti, il lavoro portato avanti è estremamente rigoroso e scientificamente attendibile.

“Ogni giorno qualche specie scompare e quello che i biologi conservazionisti cercano di fare è salvare queste specie in una sorta di arca di Noè, fatta però di campioni biologici, descrizioni e fotografie”, racconta Delledonne. “Un giorno questi campioni di Dna e di tessuto potranno essere utilizzati come in Jurassic Park, ma non per riportare in vita specie con le quali non potremmo convivere, né che potrebbero sopravvivere nel nostro mondo, ma bensì quelle specie che stiamo perdendo perché sterminate cacciandole o perché abbiamo distrutto il loro ecosistema. Queste biobanche custodiscono il nostro passato ed il nostro presente”. E, si spera, anche il nostro futuro.

Tutto è cominciato a dicembre 2013 quando una fino ad allora sconosciuta azienda inglese, Oxford Nanopore Technologies (ONT), annunciò di aver sviluppato un sequenziatore del Dna poco più grande di una scatola di sigarette, il MinION. Era ancora un prototipo poco preciso e poco affidabile, ma aveva delle caratteristiche uniche: era piccolo, costava pochissimo, circa mille dollari, si alimentava direttamente dalla porta usb di un computer e non richiedeva un ambiente ad umidità e temperatura controllate.

 “Questo strumento apriva enormi possibilità, cioè di raccogliere andando sul posto il Dna barcoding, una tecnica che consente di identificare qualsiasi specie animale o vegetale sulla base di quello che “è scritto” nel suo Dna e che la distingue da tutte le altre. Confrontandolo poi con i database disponibili si può capire immediatamente se la specie è già conosciuta. La normale strumentazione di laboratorio non è in grado di funzionare a temperature e soprattutto umidità così elevate, e non è generalmente trasportabile in una valigia. Con i miei collaboratori ho costruito strumentazione, adattato altra strumentazione e soprattutto messo a punto protocolli che non richiedessero un freezer per preservare i reagenti, perché un freezer da -20 gradi non lo si porta certo né in aereo né sulle spalle in foresta. Ho anche sviluppato una pipeline di analisi bioinformatica che ci permettesse di ridurre l’errore di sequenziamento, così da poter sequenziare una specie e capire se è conosciuta oppure no. E oggi riusciamo a fare molto, molto di più”.

Da qui si sono susseguite numerose spedizioni, in Tanzania, in Congo, nelle foreste del Borneo, in Montenegro e, infine, quest’anno, dopo la pausa forzata dovuta alla pandemia, in Mongolia. Questa spedizione ha portato un gruppo di 8 scienziati italiani e uno mongolo, un fotografo scientifico francese e 5 persone di supporto, 3 autisti, un ranger ed una cuoca, in una delle regioni più remote e meno densamente popolate del pianeta: il Deserto del Gobi. La missione consisteva nell’esplorazione della biodiversità faunistica e microbica del Grande Gobi. L’obbiettivo, insieme a due esperti di chirotteri, catturare pipistrelli, fare Dna barcoding per classificarli, verificare la presenza di coronavirus nelle loro feci e, quando presenti, effettuare una caratterizzazione preliminare, sequenziando una porzione di questi coronavirus con il laboratorio portatile.

“Questa spedizione è stata fisicamente impegnativa, abbiamo viaggiato per oltre 3000 km lontano dalla civilt,à in completa autonomia, per più di 2 settimane e con risorse idriche razionate. Non potersi lavare neanche le mani per giorni, se non con qualche salvietta, in un ambiente con temperature che oscillavano fra i 4 e i 35 gradi, circondati da enormi zecche, mangiando ogni giorno solo una zuppa di patate e carote, lavorando di notte in pieno deserto, è stata una prova veramente estrema. Abbiamo campionato 6 oasi, dove per oasi si intende un punto nel deserto dove c’è un rivolo d’acqua che scorre sulla superficie per qualche decina di metri. Acqua che riuscivamo a raccogliere con un mestolo e che poi bollivamo per poterla bere. In quella piccola zona tutti gli animali vanno a bere, per cui è una bolla di biodiversità. Li venivano piazzate le reti per catturare i pipistrelli che planavano per bere, e nei dintorni le trappole per i piccoli mammiferi”.

L’obiettivo è stato centrato e Rna dei pipistrelli analizzato. Non sono emersi, al momento, nuovi coronavirus pronti al salto di specie, ma solo virus già noti, tipici dei pipistrelli. Il Dna raccolto sarà comunque ora sequenziato anche in Italia, all’istituti zooprofilattico di Brescia, per la sorveglianza, che la pandemia da Covid-19 ha mostrato essere fondamentale.

Il progetto non si ferma qui, per il 2023 è in programma un’altra spedizione estrema e particolarmente interessante. La National Geographic Society ha infatti approvato un progetto che prevede l’esplorazione delle regioni carsiche del Caucaso occidentale in Georgia, uno dei punti più ricchi di biodiversità sotterranea. Il progetto rientra fra i finanziamenti di livello II, ovvero estremamente competitivi e riservati a quei progetti che sono in grado di spingere in avanti i limiti della conoscenza. Questo studio è realizzato in collaborazione tra l’università di Verona, l’Ilia State University di Tbilisi, in Georgia, l’università di Belgrado, il Museo di storia naturale di Stoccarda, la P. J. Šafárik University di Šrobárova, Slovacchia e la Federal Scientific Center of the East Asia Terrestrial Biodiversity

Gli ecosistemi delle grotte sono tra i meno conosciuti sulla Terra. La loro esplorazione è quindi potenzialmente ricca di possibilità per la scoperta di nuove specie animali. L’obiettivo principale del progetto è studiare la biodiversità, la tassonomia, l’ecologia degli invertebrati come coleotteri, collemboli, diplopodi, crostacei, che vivono nelle grotte carsiche e conglomerate della Georgia.

“Il progetto si svolgerà in un ambiente davvero estremo, alcune delle grotte selezionate, oltre ad essere difficilmente raggiungibili, sono inaccessibili senza attrezzatura speleologica o subacquea. Avremo speleologi e subacquei locali esperti come consulenti nel progetto, che sono formati nel campionamento di invertebrati cavernicoli e che ci aiuteranno a campionare. Inoltre, in alcune grotte sono presenti fiumi sotterranei con anche un rischio di esondazione che richiederanno una pianificazione molto attenta delle attività. Vediamo se ce la facciamo”.

L’avventura della scienza è pronta a ripartire.

Elisa Innocenti

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