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Dal dna di Cangrande la verità sulla sua morte. Indagine genetica mai eseguita prima su una mummia

di Roberta Dini
20 Maggio 2021
in Ricerca e innovazione

E’ stata una malattia genetica rara, più precisamente la Glicogenosi tipo II ad esordio tardivo, a portare alla morte, in soli tre giorni, Cangrande della Scala, Signore di Verona. Nessun assassinio dunque, come una certa tradizione ha sostenuto per secoli. Il 22 luglio 1329, Cangrande morì a Treviso, appena trentottenne, in conseguenza di una rara malattia genetica.

A svelarlo sono state le analisi condotte dal Laboratorio di Genomica Funzionale del Dipartimento di Biotecnologie dell’Università di Verona, diretto dal professor Massimo Delledonne. Un’indagine genetica mai eseguita prima sul DNA di una mummia.

Il DNA di Cangrande è stato estratto in collaborazione con il Laboratorio di Antropologia Molecolare e Paleogenetica dell’Università di Firenze, coordinato dal prof. David Caramelli e dalla prof.ssa Martina Lari, esperti nell’estrazione di DNA antico.

Questo sforzo congiunto fra gli esperti del Museo di Storia Naturale e Università degli Studi di Verona e di Firenze ha permesso di dimostrare come sia possibile analizzare con altissima precisione i geni di un DNA così antico, sfruttando procedure diagnostiche all’avanguardia, per giungere a una diagnosi clinica certa, anche quando le fonti storiche sono scarse.
Utilizzando le nuove tecnologie di sequenziamento diagnostico applicate nei più avanzati centri di ricerca a persone malate per migliorare la diagnosi, la prognosi e la cura delle malattie a base genetica, è stato possibile non solo ricostruire l’informazione custodita nel DNA di Cangrande della Scala, ma anche riconoscere le condizioni patologiche che hanno determinato la sua morte.

I risultati della storica indagine sono stati presentati a Verona, al Museo di Storia Naturale, dal sindaco Federico Sboarina e dall’assessore alla Cultura Francesca Briani. Presenti il direttore dei Musei civici Francesca Rossi. Ad illustrare la ricerca, per l’Università di Verona Massimo Delledonne – Dipartimento di Biotecnologie e Alessandro Salviati – Dipartimento di Biotecnologie, per l’Università di Firenze David Caramelli – Dipartimento di Biologia. Presenti Ettore Napione dell’Ufficio Unesco del Comune di Verona, che ha curato parte dei riscontri storici dello studio, e Leonardo Latella del Museo di Storia Naturale.

Analisi effettuate. Una prima estrazione, eseguita su frammenti di fegato, non ha reso possibile il sequenziamento clinico.
È stata quindi effettuata una seconda estrazione, da un piccolo frammento di falange. Anche in questo caso la quantità di DNA estratto presentava DNA contaminante. Una percentuale di DNA umano più elevata consentiva però di portare avanti un percorso di analisi.

Il laboratorio di Genomica Funzionale dell’Università di Verona ha dunque deciso di applicare una tecnica di laboratorio attualmente utilizzata per la diagnosi clinica di pazienti affetti da malattie genetiche, che ha permesso di catturare in modo specifico i circa 35 milioni di basi del DNA che contengono i geni umani, eliminando così il DNA contaminante.

Cangrande è stato quindi “sequenziato” come se si trattasse di un paziente dei nostri giorni, e l’analisi bioinformatica degli 83 milioni di sequenze prodotte ha portato alla ricostruzione del 93.4% dei suoi geni, un valore davvero molto elevato.

La malattia. Analisi successive hanno permesso di identificare 249 varianti associate a malattie da cui è stato possibile riconoscere due mutazioni diverse nel gene dell’enzima lisosomiale α-glucosidasi acida. La malattia che deriva dalla disfunzione di questo enzima è una glicogenosi, in questo caso la Glicogenosi tipo II.

Nei casi ad esordio tardivo, come quello riconducibile a Cangrande, la malattia si evidenzia in una scarsa resistenza alla fatica fisica, difficoltà respiratoria, debolezza muscolare e crampi, fratture ossee spontanee e cardiopatia.

La morte dei pazienti adulti è spesso quasi improvvisa, come accaduto a Cangrande, deceduto dopo solo tre giorni di malattia.

Alcune opere storiche hanno messo in luce piccoli indizi compatibili con questa patologia, relativi a soste forzate nel corso di tragitti a cavallo abbastanza brevi, ad improvvisi malesseri e, forse, anche alla preferenza per l’uso dell’arco rispetto alla spada.

Il quadro clinico della morte di Cangrande è pertanto compatibile con la malattia di Glicogenosi tipo II ad esordio tardivo.

Il medico di Cangrande, nel tentativo di contrastare questa debolezza, somministrò dosi eccessive di digitale (una sostanza utilizzata come cardio tonico) e questo fece pensare ad un avvelenamento, tanto che il medico venne impiccato di lì a poco. Oggi sappiamo che quella somministrazione era ben lungi dall’intento di avvelenare il Principe.

Conferme storiche. In ambito storico sono riportati alcuni dei momenti più critici della salute di Cangrande. Prima crisi, il 17 settembre 1314, all’età di 23 anni, dopo una cavalcata veloce il Signore di Verona è costretto a lasciare il cavallo e viene trasferito su un carro. Seconda crisi, il 25 agosto 1320, a 29 anni, ferito ad una coscia fu trasportato all’accampamento, dove si riprese e ritornò in battaglia. In realtà, dalle autopsie effettuate sul corpo non sono state riscontrate cicatrici sulla coscia, ciò fa supporre si trattasse di altri sintomi, sempre riconducibili alla malattia. Terza crisi, il 4 luglio 1325, all’età di 34 anni, in una cavalcata da Verona verso Vicenza Cangrande fu colto da improvviso malore e fu riportato a Verona, dove peggiorò, rimanendo tra la vita e la morte per dieci giorni e poi malato per mesi. Quarta crisi, il 18 luglio 1329 si ammala e dopo tre giorni muore. Era il 22 luglio 1329, Cangrande aveva 38 anni.

Reperti 2004. Un’indagine partita da lontano. Esattamente dal 12 febbraio del 2004 quando, per decisione del Comune e i civici Musei d’Arte, fu organizzata la ricognizione e l’apertura dell’arca funebre di Cangrande della Scala, che portò ad identificare il corpo mummificato dello scaligero, più o meno nelle medesime condizioni in cui era già stato rinvenuto all’interno della cassa nell’apertura del 1921 (in occasione del VI centenario della morte di Dante Alighieri).
Il corpo del Principe fu sottoposto ad una serie di indagini scientifiche e autoptiche prima di essere nuovamente riposti nell’arca che li aveva preservati per secoli.

Parte dei materiali biologici, in particolare il fegato e alcune falangi del piede, furono inviate all’Università di Pisa per ulteriori indagini biomediche. Nei primi mesi del 2007, i reperti furono restituiti e depositati presso il Museo di Storia Naturale perché venissero conservati e resi disponibili per futuri ulteriori studi.

Contributo dell’ufficio stampa Comune di Verona

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