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Conflitto israelo – palestinese, il circolo della violenza

L’editoriale di Olivia Guaraldo, docente di Filosofia politica

di univr
28 Luglio 2014
in Attualità
Striscia di Gaza

Striscia di Gaza

“Hamas sta distruggendo crudelmente e minacciosamente la tradizionale mentalità del doppio standard in cui Israele è maestro. Tutte le brillanti intelligenze e le menti dello Shin Bet non capiscono che noi stessi abbiamo creato  la ricetta perfetta della nostra personale versione della Somalia? Volete evitare un’escalation? Questo è il momento: aprite la Striscia di Gaza, lasciate che la gente possa circolare liberamente nel mondo, in Cisgiordania, e andare dai propri familiari e le proprie famiglie in Israele. Lasciateli respirare, e capiranno che la vita è molto più bella della morte.”

Così scrive la giornalista Amira Hass su Haaretz, mettendo in evidenza come la situazione a cui siamo giunti oggi nello scontro tra Israele e Gaza dipenda in maniera diretta da un’assurda logica di complementarietà. Pur combattendosi ferocemente, pur odiandosi visceralmente e rifiutando ogni possibilità di  dialogo, i due attori in campo (il governo israeliano e Hamas) fanno l’uno il gioco dell’altro, si sostengono vicendevolmente nella logica della perpetuazione infinita del conflitto. Tutto ciò corrisponde a quello che Adriana Cavarero chiama nel suo Orrorismo il “punto di vista del guerriero”, un orizzonte di senso che satura da millenni l’immaginario e la pratica della politica. È come se fossimo incapaci di comprendere la politica altrui e restassimo così affannosamente legati solo alla logica della forza, una logica che, come tale, tende a perpetuare solo se stessa.

L’attuale escalation, sia che venga giustificata da parte israeliana sia che venga giustificata da parte palestinese (di Hamas) non ha le sue ragioni in uno specifico fatto. Ogni miccia che fa riprendere l’escalation è solo il pretesto che tutti aspettavano per riprendere il ritmo familiare della guerra. Tanto che, in quest’ultimo riaccendersi del conflitto, è bastato l’atto sconsiderato e irresponsabile di un gruppetto di persone che, autonomamente, hanno rapito e ucciso dei ragazzi ebrei. Così, allo stesso modo, si è svolta l’azione dei ragazzi ebrei che hanno bruciato vivo il ragazzo palestinese: due episodi di “violenza fai da te”, slegata persino dalle dinamiche degli attentati terroristici “kamikaze” che in genere riaccendevano la miccia del conflitto. Questa volta l’escalation della violenza è dovuta al fatto che uno stato – con tutto il suo apparato di leggi e strumenti di violenza – prende sul serio la provocazione di un gruppetto di “cani sciolti”, usa la violenza sovrana per rispondere con i mezzi della guerra a un episodio di violenza “privata” – ovvero l’uccisione per odio individuale di una persona. E lo stesso fa Hamas, quando comincia a mandare razzi in risposta all’uccisione del ragazzo palestinese. Questo dimostra come i due apparati politico-militari, Israele e Hamas, per quanto differenti siano, per quanto asimmetrica possa essere la loro condizione concreta (razzi e tunnel “fai da te” contro lo scudo antimissile di Israele, morti e feriti solo da una parte, etc.), siano assolutamente simmetrici, in sintonia pressoché totale, nel considerare la logica militare, della forza, l’unica possibile. Come se la loro stessa identità dipendesse solo da un conflitto che va costantemente riattivato e riacceso, pena la perdita di consenso e di potere.

Chi si contrappone a questa logica nichilista – una logica che, come direbbe Simone Weil, vede nella guerra il modo per continuare ad acquisire mezzi per farla – è considerato naif, sprovveduto, inefficace, fricchettone, pacifista che non ha il polso della realtà. Organizzazioni non violente come i Combatants for peace cercano invece di pensare il rapporto fra israeliani e palestinesi al di fuori della logica della forza, al di fuori dell’interminabile “circolo della violenza” che gli apparati di entrambe le parti costantemente riattivano. I Combatants for Peace hanno indetto per il 26 luglio una manifestazione nazionale per mettere fine al conflitto. Inoltre, giornalisti di entrambe le parti stanno tenendo un elenco delle persone morte, non solo numerico ma nominale: chi muore ha un nome e un cognome, era una persona in carne ed ossa, con una storia e dei legami. Insistere sull’unicità di ogni perdita può essere un modo per contrastare la logica spersonalizzante della forza, che decreta la vittoria solo a chi ha fatto più cadaveri.

È per questo che sono convinta che l’attività militare degli apparati di entrambe le parti non potrà mai produrre la pace, ma solo altra violenza, e, sempre per citare Simone Weil, la grandezza di un conflitto non può che misurarsi sul numero di vittime che produce, perché questa è la sua intrinseca motivazione.

Ecco, la produttività del conflitto ora in atto fra Israele e Palestina si sta misurando tutta nei cadaveri prodotti, e state certi che non ci sarà altro guadagno, dal punto di vista strategico. Il fatto che i cadaveri siano poi solo da una parte non è per nessuna delle parti in gioco una buona ragione per porre fine al conflitto: forse sarebbe salutare constatare che nulla di buono può venire dal bombardare scuole e ospedali. Invece, da una parte Israele finge di non capire e trasforma la propria superiorità militare in una forza irresistibile che, se provocata, non può che intervenire. Dall’altra Hamas spera di trasformare la propria inferiorità militare in superiorità morale esibendo al mondo le “sue” vittime innocenti, strumentalizzando così, ex post, le morti di donne e bambini. Il cinismo e l’ipocrisia di una politica al servizio della guerra è ciò che di sicuro non aprirà alcun varco per la pace.

Solo un radicale cambio di passo nell’immaginare la relazione fra i due popoli, solo una lucida analisi della brutale inefficacia della guerra, e con essa della logica della forza, del circolo della violenza costantemente riattivato, potrà portare a risultati concreti. I sognatori, in questa triste vicenda, non sono i pacifisti; essi sono semmai gli unici che hanno i piedi per terra, e concrete possibilità di successo. Sognatori deliranti sono invece coloro che, uccidendo donne e bambini, oppure utilizzando le loro morti per fini “strategici”, credono si possa arrivare ad una soluzione. Forse però, nel loro delirio a tinte fosche, la soluzione che sognano non può che essere “finale”.

Olivia Guaraldo

28.07.2014

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